Twenty-four hands

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    8 Aprile 1994
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    Edited by Praha - 8/10/2010, 09:41
     
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  3. Sisifo84
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    15/04/1994


    Quell'articolo di giornale era in mezzo alla scrivania di Glenn, e da circa una settimana faceva compagnia a tutti gli indizi sul caso, assieme ad una bottiglia di Southern & Confort mezza vuota, ed un bicchiere consunto.
    Glenn, dormiva sul divano, erano stati dei giorni pesanti, come del resto lo erano stati i suoi ultimi anni. Aveva bisogno di una doccia, da giorni cercava di capire cosa fosse successo a Staten Island, il commissario Godwin non aveva potuto evitarle il caso, lei d’altronde era la migliore, quella che aveva l'intuizione esatta, quella che sapeva sempre dove mirare per sparare, quella che negli ultimi due anni aveva risolto tutti i casi, non poteva non darle questo caso, anche se avrebbe evitato.
    Negli ultimi due anni Glenn, si era buttata solo sul lavoro, era un'agente scelto, un detective della polizia di NY 164° distretto, viveva a lavoro, il lavoro era la sua vita, anche perché tutto quello che le rimaneva della sua vita, era solo il lavoro.
    Tre anni fa, Glenn, sdraiata sul suo letto matrimoniale, vestita solo delle lenzuola, accarezzava i bicipiti di Maurice, bellissimo sdraiato al suo fianco, avevano appena fatto l'amore, e lui la guardava come si guarda un'opera d'arte.
    -Sei fantastica a letto, spero non te l'abbia mai detto nessuno- le disse, un po’ sognante.
    Lei fece finta di imbarazzarsi -No- rispose, sapevano entrambi di essere stupidi in questo giochetto, ma faceva sempre piacere scoprirsi innamorati.
    Lei, con i capelli scesi sulle spalle, respirava piano, rilassata, aveva una notizia da dare a Maurice e aveva preparato tutta la serata per questo, prima l'aperitivo tra candele ed incensi, poi la cena italiana, accompagnata da vino rosso, cosa alla quale lui non resisteva e infine l'amore, tutto per dirgli: -Tesoro, ho una sorpresa per te- baciandogli una guancia. Lui sorridente le chiese cosa fosse, e Glenn, nello splendore dei suoi capelli rossi, si alzò per andare al bagno e portare a Maurice una scatolina.
    All'inizio, lui sembrava non aver capito, solo quando sfilò il test di gravidanza dalla scatola, si rese conto di quale fosse la sorpresa. -Sono incinta amore, non è una bella notizia?-. Lui ci pensò su più del previsto, secondo Glenn, certo non era una cosa semplice da affrontare, ma non era certo una brutta notizia.
    Lui timido disse -Si- ma non sembrava convinto, la prima cosa che Glenn notò, era come guardava il test, sembrava tutto meno che felice agli occhi di lei.
    -Scusa ma, se sapevi che eri incinta, non è stato un rischio fare l'amore?-
    Ecco cos'era, era solo in apprensione e lei lo amava per questo, tutti i suoi dubbi erano stati fugati dalla dolcezza di quella domanda, lei lo tranquillizzò -No caro, mi ero informata, sono appena tre settimane potevamo farlo, e potremo ancora- disse strizzando un' occhio.
    Glenn, ora, stava sotto la doccia e ripensava a quella scena di tre anni fa, ora la sua chioma non è fluente e folta come allora, ora i capelli corti alla "maschiotta" come li chiama lei, hanno preso il posto allo stile Jessica Rabbit, anche il corpo, con quindici chili di meno, magro, troppo magro, rispetto a quei ricordi, già perché la sua vita felice finisce lì, si ferma a quella notte di tre anni fa.
    Mentre si massaggia le spalle nude, con la spugna imbevuta di doccia schiuma, chiude gli occhi e pensa, pensa al giorno successivo quando Maurice è uscito di casa, senza svegliarla, è andato a lavoro, ma a lavoro non c'è mai arrivato, la sua auto è stata ritrovata all'inizio di Bridgetown Street, chiusa, con dentro Maurice e un tubo di gomma collegato al tubo di scarico, e un foglio con scritto:
    Non lo voglio un figlio non lo voglio un figlio
    A trovarlo il signor D. Green, che subito chiamò la centrale e la centrale chiamò Glenn, e Glenn morì lì.
    L'acqua continuava scendere dalla doccia, lei in accappatoio, accende una Pall-Mall rossa, fa due tiri, e si rivolge alla sigaretta -Quanto ti ci vuole ad incularmi?- poi fa un mezzo sorriso e la continua a fumare mentre si veste.
    In centrale nessuno la guarda, nessuno le parla, lei lavora da sola, anche perché nessuno reggerebbe i suoi ritmi, lei lavora anche quarantotto ore di seguito senza dormire, le basta un sandwich ogni dodici ore, il South’ e le Pall-Mall.
    -Commissario- saluta caustica entrando nell'ufficio, e si siede -Ciao Glenn, ti ho lasciato un messaggio in segreteria, non l'hai sentito?- Glenn fa cenno di no, non ascoltava la segreteria da un anno, anche perché l'unico a cercarla sulla segreteria era il commissario, che vedeva tutti i giorni.
    -Abbiamo degli sviluppi?- gli chiese, in realtà perché non le interessava sapere il contenuto del messaggio, se fosse stata una cosa urgente, l'avrebbe chiamata. Come aveva sempre fatto, come aveva fatto anche allora. -Oggi ci sono gli interrogatori, ti avevo chiesto di rimanere a casa se volevi- Glenn lo aveva ignorato, ogni ipotesi di ferie era scartata, ne aveva accumulate quasi un anno, e aveva intenzione di continuare a farlo e poi durante gli interrogatori si rilassava. Non perché non stesse attenta, tutt'altro, ma lei era un donna d'azione, lei amava la sensazione dell'adrenalina che le scorreva dentro, l'aiutava a non pensare, che era la cosa più importante per lei. E poi, le piaceva stare in disparte, così da poter ascoltare, mettere assieme i pezzi, e iniziare a fare il suo lavoro di detective.
    Il primo interrogatorio fu inutile, una signora di un palazzo della zona, aveva solo detto di quanto brutto fosse l’odore, e c’ aveva messo tre quarti d’ora. Il secondo fu più interessante, secondo Glenn, un ragazzo vestito da rapper aveva detto –Io non so cosa sia successo, ma ventitré persone fatte fuori non è una roba da gang, c’è sotto qualcosa di grosso per me-. “E’ bello vedere quanti vorrebbero fare questo mestiere, ma nessuno si preoccupa realmente di seguire la legge”, Glenn sorrideva tra se, pensando questa cosa, ma il ragazzo aveva ragione, anche secondo lei non era cosa da gang.
    Per il momento gli interrogati, non davano nessuna traccia a Glenn, nessuno aveva visto qualcosa di sospetto, nessuno aveva ricordo di una qualche minaccia, nessuno riusciva a darle quel collegamento che le serviva. All’improvviso una scena si figura davanti agli occhi di Glenn, vede un uomo innocuo, che trema mentre beve un caffè vicino all’auto della polizia, parla sotto shock, a Glenn dava l’impressione che quell’uomo avesse appena visto un fantasma, poi fu lei a vedere il suo Maurice accasciato sullo sterzo, cacciò via quel pensiero, ma fu veramente difficile visto che il signor Green, era appena entrato nell’aula degli interrogatori e la guardava con la stessa pietà in cui l’aveva guardata tre anni fa.
    -Salve detective Stacy- disse rivolgendosi a Glenn, evidentemente si ricordava di lei. –Salve signor Green, si accomodi e ci racconti cosa ricorda- anche solo la voce di quell’uomo la faceva rabbrividire, ma in quel contesto lei doveva essere più forte, un altro agente la coadiuvava e non voleva che quel novellino la vedesse debole, ma lei era nel suo personale inferno ora.
    -Ricordo che, la mattina del sette, sono andato ad aprire le porte del mio stabile, perché la signora Huter si lamentava degli odori che arrivavano dagli appartamenti, e soprattutto, della concentrazione di mosche e mosconi, che generalmente in quella zona non ci sono- Glenn si ricordava di questo particolare, era un uomo mediocre e tendeva sempre a valorizzare la sua zona, o meglio la zona del suo stabile, per poterla in qualche modo affittare a qualcuno, o almeno per far capire che dove vigeva il suo controllo non accadeva nulla. Questo pensiero, rivoltava lo stomaco di Glenn, quell’uomo era per la seconda volta il testimone di decessi nella zona di Bridgetown Street, qualcosa al suo controllo sfuggiva, eccome.
    In ogni caso, il signor Green non aveva fornito dettagli utili, ma il solo fatto di saperlo come testimone rendeva Glenn irrequieta, molto, e la cosa non giovava né al caso, né al suo equilibrio. Ma ora Glenn doveva fare il suo lavoro, e sapeva che lei era la migliore nel distretto, e che il commissario si aspettava che lei risolvesse questo vespaio. Iniziava mettendo ordine all’interno della sua testa, e setacciando le varie esposizioni, facendo mente locale si era ricordata che, non era solo il rapper ad avergli dato qualcosa, anche un uomo anziano, sulla settantina, aveva detto –Io non me ne intendo, ma una cosa del genere non è umana, chiunque l’abbia fatto non è un uomo-. Glenn dovette ammettere che quel signore aveva ragione, chiunque abbia commesso una cosa del genere, è tanto più lontano dall’essere un uomo, almeno quanto lo è lei dal sentirsi viva.
    Accendendosi una sigaretta esce dal distretto, il commissario non le chiedeva mai dove andasse e fare cosa, sapeva che lei portava a casa il risultato, come lo faceva, preferiva non saperlo, o meglio, lui avrebbe voluto saperlo, ma lei lo aveva “educato” in tal senso.
    In giro per Staten Island, sempre con la sigaretta tra le labbra, Glenn si avventurava per le vie parallele a Bridgetown Street, passando prima per Fraser Street e poi raggiungendo Kelly Boulevard, Glenn non notava nulla, solo la solita patetica vita di New York, ma meno fantastica dei film e più cattolica del centro, guardava le case schierate a villetta, tutte rigorosamente con praticello davanti alla porta di casa, e la piscina dietro, ripensando al suo monolocale in zona Hell’s Kitchen soppresse un conato, più di depressione che non di qualcosa di fisico, e si morse un labbro nel vedere una madre che, impaziente, attendeva suo figlio che arrivava con il bus della scuola, li guardava, avidamente invidiosa, mentre la madre carina baciava sulla testa il biondo figlio, si scoprì a pensare che lei, ora, sarebbe potuta essere al posto di quella donna, stirare delle magliette di baseball del piccolo Ben, così lo voleva chiamare, a preparare da mangiare per Maurice e Ben, così lo voleva chiamare, a baciare sulla testa il suo Ben, così lo voleva chiamare, ma non ha potuto. Chiuse gli occhi, ripensava al funerale di Maurice, lei non riusciva a piangere con tutti i suoi colleghi li accanto, lei guardava la bara chiusa, e sentiva le parole del rabbino, inutili e forse fuori luogo, Maurice era ebraico ma non aveva mai realmente praticato, lei si fissò sulle mani del rabbino che leggevano un foglio, e lei con le mani in tasca, ne stringeva un altro con scritte le ultime, sincere parole di Maurice. Lui non voleva quel bambino e una lacrima le solca il viso , ora come allora, senza volerlo ora sta camminando, va verso quella donna felice con il suo bambino, cammina lenta trasportata dai ricordi, e i ricordi le raccontano di quando lei, finita la cerimonia e assistito alla tumulazione, è andata verso casa, le raccontano dei colleghi che la seguivano per assisterla, le raccontano del coltello da cucina, impugnato con la stessa mano in cui teneva il biglietto di Maurice, le ricordano della prima pugnalata poco sopra l’ombelico, ora Glenn sta correndo verso quella donna, ha slacciato la fondina e sta per prendere la sua pistola, i ricordi aumentano di intensità, la seconda pugnalata è quasi reale come allora, con gli occhi iniettati di sangue e le pupille dilatate entra nel giardino della casa numero 170, i suoi ricordi hanno già gli occhi chiusi, e lei con la pistola carica sta per sparare. Il bambino urla, lei si desta, quel bambino non è Ben, così voleva chiamarlo, la madre la guarda terrorizzata.
    -Sono un agente di polizia, e … - e non sapeva come finire la frase, inventa una scusa su due piedi e si passa una mano sulla fronte bagnata. Saluta imbarazzata, e va verso Bridgetown Street, accende una Pall-Mall rossa ancora stordita da tutti quei ricordi, attraversa un viale alberato, vuole rimettersi a lavoro, come sempre, ma inavvertitamente la prospettiva cambia, sente uno stridio di gomme, una macchina nera svolta proprio davanti a lei, non ha il tempo di vederla ne di evitarla, viene investita, così violentemente da perdere i sensi, la sua mente ripensa a Ben, così voleva chiamarlo, ma non lo fece perché lo uccise.

    Edited by Charlotte Sometimes - 30/6/2010, 17:59
     
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  4. ¬Roach
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    8/04/1994



    -Questro dovrebbe andare bene...-
    Pensò l'uomo, raccogliendo quel che restava del quotidiano locale del giorno, la copia era umida e nella testata presentava l’inconfondibile carattere della scritta New York Times, oltre ad un riparo avrebbe anche avuto qualcosa da leggere, non poteva sperare di meglio.
    La giornata stava per terminare, e se non avesse raggiunto il proprio rifugio al più presto, il freddo di quel giorno avrebbe pensato a porre fine alle sofferenze, che quella disgraziata vita non faceva altro che rifilargli.
    Imprecò per via della pioggia incessante, cominciò a correre trascinando il giornale e un malconcio scatolone di cartone, prelevato all’esterno di un fast-food, non senza qualche difficoltà causata dal disappunto dell’inserviente, sperando di raggiungere ciò che non poteva di certo definirsi casa, ma che nella situazione in cui si trovava era come se lo fosse. Raggiunto il vicolo nel quale viveva da più di un mese, una stretta viuzza sporca e maleodorante che si concludeva con un solido muro, sistemò il malconcio scatolone esattamente tra una sorta di grondaia abbastanza larga da dargli riparo dalla pioggia e un lampione divelto ma funzionante e vi entrò, sembrava non esserci alcuna traccia di topi che, per quanto avrebbero rappresentato un modo per sfamarsi, lo avrebbero sicuramente disturbato mentre tentava di prendere sonno.
    Sul suo volto balenò per qualche istante un sorriso di soddisfazione, prima di sparire in una smorfia di disappunto.
    -Soddisfatto per aver trovato uno scatolone e dei giornali? Fino a qualche tempo fa l’unico motivo per cui esprimevo soddisfazione era la visione del viso contorto dalla rabbia dell’avvocato avversario, sono proprio caduto in basso-.
    Questo, ed una serie di vari pensieri gli impedirono di prendere sonno, a dispetto dello stancante giorno al quale era stato sottoposto, neanche la lettura del giornale che usava come lenzuolo riuscì a fargli chiudere le palpebre, anzi, la lettura di un articolo nel quale era annunciato il ritrovamento di ventitrè corpi all’interno di un appartamento e della conseguente difficoltà, da parte della proprietaria a“piazzarlo” in seguito alla chiusura delle indagini, lo fece leggermente adirare
    -Sarei disposto a convivere con i 23 cadaveri pur di avere un tetto sopra la testa, cosa che avevo fino a quando quella puttana non mi ha tolto tutto- ripeté tra se e se.
    Improvvisamente un tonfo non particolarmente rumoroso, ma in grado di destare l'uomo dai suoi pensieri echeggiò nel vicolo, quest'ultimo, sorpreso da tale rumore, e pensando che un banale sacchetto colmo di rifiuti non potesse scatenare tanto chiasso, decise di raggiungere il luogo dal quale provenì il suono, un cassonetto malconcio, scartato come luogo di riposo per via della scomoda abitudine dei netturbini di svuotarlo frequentemente, tuttavia, mentre si dirigeva verso di esso, notò due imponenti figure di spalle situate alla fine del vicolo, era ovvio che i responsabili di tale chiasso erano loro, ma chi o cosa avevano lanciato? L'uomo fu combattuto tra il ritornare indietro e la curiosità di scoprire cosa fosse situato all'interno del cassonetto, ma poiché i due individui voltarono l'angolo, conscio di non correre alcun rischio optò per la seconda opzione e non appena aprì la parte superiore del fusto, vide la sagoma di un essere umano, aveva braccia e gambe legate, nonché un pezzo di nastro adesivo posto sulla bocca, che gli impediva di proferire alcun suono.
    Il senzatetto decise di liberare la bocca del prigioniero, sperando di poter aiutare il malcapitato, ma fu puntualmente ripagato dalle urla di quest’ultimo, non fece neanche in tempo ad escogitare un modo per calmarlo che fu mandato a terra da un colpo apportato al viso, aprì immediatamente gli occhi per tentare di scorgere l’aggressore quando fu colpito nuovamente da una scarica di colpi, nonostante la vista annebbiata riconobbe due sagome prima di perdere definitivamente i sensi.

    -E’ ancora in coma?-
    -Si, i numerosi traumi subiti probabilmente lo renderanno incosciente per almeno sei ore-
    -Somministrategli degli antidolorifici e lasciatelo riposare, ha dei parenti?-
    -Non siamo riusciti a rintracciarli, dato che non aveva alcun documento con se non sappiamo neanche quale sia la sua identità, il fatto che abbia la scritta “John Scofield” tatuata sul proprio braccio non significa che sia il suo vero nome, per quel che ne sappiamo potrebbe anche essere gay-
    -Non la facevo così spiritosa infermiera Stamil-
    -Ma che bel complimento-
    -Infatti non lo era…-

    Edited by Charlotte Sometimes - 30/6/2010, 18:00
     
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  5. Dracace
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    8/04/1994


    Sono quasi le otto di sera e quell’infame di un negoziante non è ancora uscito. In effetti per un passante sarebbe stato strano vedere lui, un aitante ventenne di buona famiglia, in un vicolo del genere. Non sapeva bene cosa lo attraesse nel crimine, forse la sensazione di supremazia sulla legge dopo aver portato a termina un colpo, oppure il sentirsi adatto per questa vita. I suoi lo credevano solo uno studente modello alla New York University, mentre le sue più grandi soddisfazioni nella avita provenivano dai crimini di ogni genere. Non lo beccavano perché era più furbo dei poliziotti e perché, derubando per svago e non per necessità, potevano anche passare un anno tra un colpo e l’altro. Attualmente il piano era molto semplice. Aveva messo gli occhi su una piccola gioielleria ben fornita, con solo il proprietario e un assistente a lavorare. Aveva aspettato il sabato, in modo da poter prendere, oltre ai diamanti, anche l’incasso della settimana. Ora si trova fuori dal negozio, nel vicolo attiguo, in attesa. Ha aspettato che il proprietario uscisse, lasciando all’assistente le ultime incombenze, e ora non gli resta che attendere quest’ultimo per iniziare il lavoro.
    Finalmente, dopo altri dieci minuti d’attesa, anche l’aiuto gioielliere esce, abbassa la saracinesca e sta per inserire i codici dell’allarme: è il momento giusto. Con naturalezza estrae la sua arma preferita dalla tasca dove la nasconde,un’automatica Beretta 93R. Gli piace quell’arma, oltre per le prestazioni in fatto di sparatorie, anche per quella fisionomia squadrata e metallica, un po’ fredda, che era proprio l’atteggiamento che utilizzava quando colpiva. L’aveva comprata da un simpatico negoziante che non ricordava i nomi dei clienti e tanto meno le leggi sulla vendita di armi. Infila velocemente il passamontagna sulla testa e si posiziona dietro l’uomo, un trentenne paffuto in giacca e cravatta che, ancora ignaro di ciò che lo attende, sta per girarsi e allontanarsi. Preme la canna della pistola sulla tempia del poveretto e gli sussurra con quella sua voce distaccata le direttive per le operazioni. In giro non c’è nessuno, forse perché il sabato sera la gente rincasa prima, forse perché in periferia c’è sempre poca gente in giro,ma non può sperare che un colpo di fortuna come quello duri ancora per molto.
    -Apri bene le orecchie, perché non ho intenzione di ripetermi. Questa che senti è una pistola automatica provvista di silenziatore, quindi se ti sparo non ci sarà nessuno che sentirà e verrà a soccorrerti. Ora apri questa porta e fammi entrare. Se fai scattare l’allarme sei morto. Se ti metti ad urlare sei morto. Se contatti in qualsiasi modo la polizia sei morto. Ora sbrigati e fai quello che ti ho detto. –
    L’uomo ammutolisce, inizia a tremare come una foglia ma toglie l’allarme, alza la saracinesca e fa entrare il giovane come gli è stato ordinato. Lui si limita a chiudersi dietro la porta e a sistemare il cartellino “CLOSED”,chiudendo le tende davanti al vetro della porta. Nessuno li vede, nessuno lo ferma.
    A questo punto il rapinatore da sfoggio della sua organizzazione. Con indosso un paio di guanti di pelle, che aveva infilato quella mattina uscito di casa, apre lo zaino che si porta a spalle ed estrae il materiale. Tutta l’attrezzatura era stata comprata in mattinata, sempre con indosso i guanti. Estrae un grosso sacco nero per la spazzatura e ordina all’inserviente di riempirlo con incasso e gioielli. Lo osserva agitarsi mentre lo aiuta a derubare il suo negozio, ripassando meccanicamente le azioni seguenti. Dopo che tutto il bottino e nel sacco, tramortisce l’uomo e gli lega mani e piedi con due fascette di plastica. Rimette tutto nello zaino, si allontana di cento metri, entra in un vicolo e si toglie il passamontagna, infilandolo in tasca. Gli piace colpire in periferia, poche telecamere e la gente, quando viene rapinata, non oppone quasi mai resistenza. In tre anni non aveva dovuto sparare neanche una volta.
    Entra nel solito locale e scambia un’occhiata con il proprietario, uno scozzese con il fiuto per gli affari. Gli si avvicina, aprendo la borsa davanti a lui.
    -Bravo, vedo che sei sempre rispettoso dei patti. Questo è un anticipo, torna poi dopo la vendita dei diamanti per avere la tua parte-
    Lui non dice nulla, prende i soldi dalla borsa e quelli che il vecchio gli porge. Posa lo zaino per terra, ci mette sopra il passamontagna e si dilegua tra i vicoli. Penserà lui a far sparire tutto il materiale. Un tipo affidabile, se si tratta di poterci guadagnare qualcosa sopra. Per metà dell’incasso, gli distruggeva delle prove compromettenti e si occupava di vendere la refurtiva. In quei tre anni, nessuno dei due era mai rimasto deluso. Passeggiando per le strade semideserte, sente il peso dei soldi e della pistola in tasca e decide di dirigersi verso casa per posare la refurtiva. Preferiva sempre portare abiti lunghi durante quelle giornate, così da celare ad occhi indiscreti ma esperti la sagoma della pistola e dei soldi nelle tasche, sagome che avrebbero fatto spuntare domande. Camminando per la città, è ormai sera quando passa davanti a Bridge Town Street e nota qualcosa fuori posto. Davanti a un palazzone ci sono due auto della polizia, e due coppie di uomini in uniforme parlano tra loro, con l’aria tesa di chi vorrebbe essere altrove. Il tutto aveva l’aria di essere la scena di un crimine e un crimine, commesso da lui o meno, è un richiamo inderogabile, anche se in quel momento il rischio è di venire arrestati. Decide di avvicinarsi e, arrivato vicino al gruppetto, chiede:
    -Agente, cos’è successo qui? State pattugliando l’edificio?-
    -Sì, ma tu non hai letto il giornale oggi?-
    -No, perché? Cosa dovrei aver letto?-
    -In questo palazzo ieri sono stati trovati ventitre corpi morti in circostanze ancora poco chiare, si tratta della notizia dell’anno, un caso davvero difficile, ne hanno parlato molto anche in televisione.-
    -Capisco, scusi ancora per il disturbo-
    -Di niente, figurati-
    Mentre lui si allontana, il poliziotto torna a parlare con i colleghi, ignaro di aver appena incontrato un rapinatore di gioiellerie.
    Ormai totalmente immerso nel caso, si dirige verso il più vicino chiosco di giornali per comprare una copia del Times.
    Ventitre corpi morti in circostanze misteriose e che non presentano tracce di morte violenta. Altro che fuga di gas, qui si trattava di qualcosa di grosso, si capiva subito. Che ci facevano tutte quelle persone chiuse in un appartamento? Forse era arrivato il momento di andare a trovare quell’amico di suo padre. Era veramente una fortuna per lui che suo padre avesse frequentato lo stesso corso di legge con l’attuale commissario di polizia. Non che il giovane David Fields avesse mai avuto bisogno dell’aiuto di qualcuno con le sue faccende, tanto con il ridicolo senso di giustizia del commissario non sarebbe servito, ma avere l’opportunità di frugare tra le indagini di polizia poteva essere molto stimolante per lui.
    Tornato nella villetta di famiglia per nascondere i soldi nella cassaforte in camera sua, riprende lo stesso taxi che lo ha portato a casa per dirigersi verso la centrale di polizia. Fortunatamente i suoi erano fuori e aveva potuto evitare domande inopportune, soprattutto per una giornata come quella.
    In centrale, a quell’ora di notte, le poche persone che sono ancora al lavoro sono immerse nella lettura dei fascicoli di qualche caso. Nell’ufficio del commissario, come sempre, la luce accesa fino a notte fonda illumina la figura pensierosa dell’uomo. Una giovane segretaria bussa alla porta dell’ufficio:
    -Capo, c’è qui un ragazzo che dice di essere il figlio dell’avvocato Fields e vuole vederla, cosa faccio?-
    -Fallo entrare, è il figlio di un vecchio amico-
    Il ventenne entra nella stanza e si presenta a quell’amico di famiglia con la sua solita faccia da bravo ragazzo, come se nella giornata non avesse fatto nient’altro che studiare e uscire con gli amici.
    - David,è mezzanotte, cosa ti porta in centrale a quest’ora? In famiglia va tutto bene?-
    -Sì, tutto a posto. Papà sta ancora seguendo la causa di tuo fratello per quel licenziamento ingiustificato, è certo di finire in una settimana con un indennizzo per il suo cliente e forse la riassunzione. Ti chiedo scusa per l’ora, ma oggi non sono riuscito a concentrarmi sugli studi per via di tutti quei corpi ritrovati a Staten Island. Non potresti dirmi qualcosa di più?-
    -Tipico del tuo carattere venire in centrale di notte per una cosa del genere. Attualmente non abbiamo molte piste. I corpi non presentano tracce di nessuna lesione, ed è come se fossero morti per cause naturali. Per adesso, in attesa dei risultati delle autopsie, abbiamo programmato di interrogare i vicini e sentire cos’hanno da dire. Il caso è veramente intricato. Se ne sta occupando la detective Glenn, un ottimo elemento, se solo non avesse sofferto quello che ha sofferto. Comunque se vuoi puoi tornare dopo gli interrogatori, magari scopriremo qualcosa di utile.-
    -Grazie infinite, mi farò sentire io.-
    Uscendo dalla centrale, osserva con la coda dell’occhio la segretaria che lo ha annunciato all’ispettore, davvero una donna attraente. Camminando per la strada, mentre torna a casa, i pochi indizi del caso si alternavano nella sua mente con il nome della detective Glenn. Quella sarebbe stata sicuramente un’estate interessante, ne era certo.


    Edited by Charlotte Sometimes - 30/6/2010, 18:03
     
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    8/04/1994



    Quando era ancora a Boston gli capitava spesso di svegliarsi nel cuore della notte senza motivo alcuno. Si svegliava di scatto, i muscoli tesi, gli occhi sgranati, la mente poco lucida. Un paio di secondi e poi si riaddormentava. A volte ci pensava su, temeva che il tutto fosse collegato a qualche strana malattia e l’idea lo rabbrividiva. In quel piccolo trilocale a New York invece non gli era ancora successo. Era da un mese o poco più che si era trasferito, eppure le notti filavano lisce e docili come il vento sui campi di grano. Ci pensò un attimo e si rallegrò in cuor suo. In effetti il periodo a Boston era stato alquanto movimentato, gli “affari” non andavano un gran che bene, Martiny e Molie avevano ancora un paio di mesi da scontare nel penitenziario federale per il colpo fallito alle poste centrali, Erik Labber-Cold Jr. detto “Mercedes” aveva il brutto vizio di bere come una spugna prima di un possibile colpo.
    - Serve a rendermi tonico – diceva.
    Salvo poi cadere giù per le scale ubriaco fradicio dopo il primo colpo assieme. Era quell’appartamento nella periferia di Boston, Mexico Street doveva essere. Lo avevano arrestato mentre ancora farneticava qualcosa su Reagan quando ancora era disteso sul pavimento con il braccio devastato, la vecchia del piano che rideva come una matta. Già, il buon vecchio Mercedes. Non era un certo il tipo con cui guadagnarsi da vivere. Della banda restava solo Jennifer. Fu lei a suggerire il trasloco momentaneo a New York finché l’allegra compagnia non si sarebbe rimessa in piedi e per evitare che il buon vecchio tenente Delorean si togliesse il prurito di mettere due belle manette ai polsi anche a loro due. Dio mio, Jennifer. Da quando erano a New York dormivano nello stesso letto. Bionda, bellissima e di una furbizia fine. E’ facile trovare le prime due caratteristiche in una donna, trovarle tutte e tre è come trovare una lattina di coca in mezzo al deserto. Non aveva orologi in camera ma sentì che John Reed stava introducendo il suo programma alla radio, dedusse perciò che erano le 10 del mattino o pressappoco. Era disteso a pancia all’aria nel suo letto. La ragazza dormiva di lato dandogli le spalle. Sospirò. Allungò la mano sulla sua tenera spalla scuotendola leggermente per svegliarla dolcemente. Lei scosse la testa un attimo. Aprì gli occhi e si stiracchiò un attimo guardandolo.
    - Si?-
    - Scusa ma adesso avrei da fare.. – le disse a bassa voce.
    - Ok, tolgo il disturbo. – rispose.
    Rimase un attimo ancora disteso a torso scoperto mentre la ragazza velocemente si rivestiva. Non stette molto, aveva solo gli indumenti intimi e un vestitino unico color lilla che le arrivava poco sopra le ginocchia. Era veramente una bella ragazza. Peccato.
    L’accompagnò alla porta, aprendola galantemente davanti a lei. Lei lo guardò un attimo.
    - C’è qualcosa? - chiese Josh.
    - Mi devi altri 20 dollari. Dieci dollari perché sono passate più di 10 ore da ieri sera e altri 10 per pagarmi il taxi per tornare dal mio capo. -
    Un ragionamento che non faceva una piega. A Josh piacevano molto le ragazze che sapevano il fatto loro. Allungò la mano nella tasca posteriore, ne estrasse il portafoglio. Dentro c’erano due banconote da 10, una da cinquanta e 3 da cento. Tutto quello che gli rimaneva.
    - Eccoti i tuoi 20 dollari. Magari ci rivediamo la settimana prossima, ok?-
    Lei sorrise un attimo. Si vedeva che era un sorriso sincero.
    - Ok. Chiedi sempre a Max se mi vuoi. Ciao. –
    Chiuse la porta. L’appartamento era composto da un corridoio centrale che finiva nel salottino/cucina, su un lato del corridoio c’era la camera da letto, dall’altro lato il bagno. Fine. In effetti era un po’ deprimente, ma lui e Jennifer erano dei tipi che si accontentavano abbastanza facilmente. Arrivato nel salotto trovò Jenny già sveglia che guardava fuori dalla finestra l’altro lato della strada. Indossava solo un paio di mutandine azzurre. Doveva essere già sveglia da un pezzo. Dio mio, Jennifer. Che spettacolo.
    - Quanti soldi ti sei fatto fregare stavolta? – attaccò subito lei.
    Non valeva la pena mentire. Era una tipa troppo sveglia e sapeva anche molto bene quanti soldi gli giravano per mano.
    - 50 dollari ieri sera, 20 questa mattina, 10 per una specie di “straordinario” più altri 10 per il taxi. -
    - Se li lanci nel cesso e tiri l’acqua forse li butteresti via meno malamente. – rispose subito.
    Già. Ma quando hai una tua coetanea che ti raddrizza anche le orecchie che pascola nuda per casa, dorme con te e soprattutto non si concede, certi bisogni devono per forza essere soddisfatti in qualche modo.
    Lei lo guardò negli occhi.
    - Dalla faccia che stai facendo si capisce cosa stai pensando. – disse lei. – Te la darò quando te la sarai meritata, idiota.-
    Dio mio, Jennifer. Lo aveva già fatto più di una volta quel discorso. Trattava quella parte del suo corpo come una qualsiasi altra parte. Josh non ci vedeva niente di male, anzi, l’ammirava per questo. Erano anche riusciti ad ottenere un passaggio da un camionista fino alla periferia di New York grazie a Jenny che si era tranquillamente concessa in cambio del passaggio. Per lei era quasi motivo di vanto nei suoi confronti. L’idea però di dormire a 2 cm da lei e non poterle farle sentire quanto era maschio lo faceva imbestialire. Ma Jennifer dal quel punto di vista era stata abbastanza chiara già la prima volta che aveva dormito con lei, appena era entrata nella banda.
    - Josh, toccami senza il mio permesso e ti assicuro che del tuo attrezzo resterà poco o niente. –
    Non c’aveva manco quasi mai provato a dire il vero, ma vedendo come aveva ridotto quel poliziotto fuori dalle poste centrali a Boston, non aveva stentato a crederle.
    Gli tornò in mente il vecchio Mercedes.
    - Secondo te come sta adesso Erik? –
    - Cosa centra quell’idiota ora? –
    Rimase un attimo in silenzio fissando il lampadario. Era proprio un bel lampadario. Una specie di palla di vetro con riflessi argentati che emanava una luce potente ma al tempo stesso soffusa. Era uno dei migliori acquisti che avesse mai fatto, ne era assolutamente certo. D'altronde avere il gusto giusto per i lampadari a 25 anni non è da tutti.
    - Ehi, ma ci sei o mi prendi per il culo? – La voce di Jenny era alquanto seccata.
    - Lasciamo perdere, è meglio. – rispose lui.
    Si passò la mano nei capelli. Da quando se li era tagliati corti gli piaceva molto passarsi la mano sui capelli di contropelo. Aprì il frigo e te tirò fuori l’aranciata. Se ne versò un po’ nel bicchiere e la bevve tutto d’un fiato.
    - Il colpo alla banca di oggi è saltato comunque. – disse quasi disinteressata Jennifer.
    - Perché? – rispose lui incuriosito.
    Gli lanciò il giornale. In prima pagina un articolo sul ritrovamento di decine di corpi privi di vita in un appartamento a Bridgetown Street, la stessa via in cui era presente la banca a cui dovevano far visita.
    La guardò con fare interrogativo.
    - Ho fatto un giro per vedere come è la situazione mentre te lo facevi menare da Miss Arizona –
    disse sarcastica, - E’ tutto transennato e c’è un bel po’ di via vai, non è prudente fare il colpo oggi. –
    Josh fece cenno con il capo. Dentro di sé era sollevato, la vita del ladro non faceva per lui. Non trovava nulla di male nell’arte del furto e della rapina, per campare e togliersi qualche lusso era disposto a tutto, ma l’agitazione che provava durante l’atto era una cosa che non riusciva a sopportare, lo rendeva inerme e poco affidabile. Sospirò.
    - Che facciamo ora? Proviamo con l’agenzia di trasferimento capitali giù a Heatrow Hill o lasciamo perdere per questa settimana? – chiese lui sperando di rimandare il tutto alla settimana successiva.
    - Direi di lasciar perdere, sfrutterò la giornata libera per farmi una bella doccia e per pulire questo cesso. Ti và di andare a mangiare qualcosa dal nuovo locale di Key Billy a pranzo? Ho sentito che fanno delle pizze all’italiana buonissime! –
    - Va bene. Nel frattempo vado a farmi un giro nei pressi della banca per vedere che è successo in quell’appartamento, mi intriga molto questa storia. –
    Si vestì alla meno peggio, un paio di jeans neri e una t-shirt a righe blue e bianche. Salutò Jenny con un cenno di mano, uscì dall’appartamento tirandosi dietro la maniglia. La porta si chiuse con un piccolo tonfo. Puoi essere a New York come a Pechino o Boston ma le porte degli appartamenti quando si chiudono fanno tutte lo stesso rumore. Il pensiero volò a Erik Labber-Cold Jr. detto “Mercedes”. “Chissà come sta adesso Erik..” pensò.

    Edited by Charlotte Sometimes - 30/6/2010, 18:05
     
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    8/04/1994



    “Alla mia sorellona, la più bravissima di Neuiok” recitavano le scritte enormi e stentate sul disegno di Francis ,che raffigurava uno sgorbio con una testa gigante circondato da cubi grigi. Palazzi? Giornali? Alieni? Ci voleva uno psicologo infantile per capirlo.
    -Allora, non è diventato un artista, il nostro Francis? -tuonò una voce dalla cornetta del telefono. L'accento era del Sud, il tono non ammetteva repliche.
    -Decisamente. Peccato che qualcuno abbia scoperto il surrealismo prima di lui... -Kay non era in vena né di assecondare le manie dell'uomo, né di discuterci, eppure sembrava che tutte le loro conversazioni finissero a quel bivio.
    -Sei sarcastica?
    Chiuse gli occhi e trattenne un sospiro frustrato. -No.
    Un verso a metà fra un grugnito e una risata le rombò nelle orecchie. -Beh, allora io adesso devo andare... Potresti venirci a trovare qualche volta, che ne dici?
    Non era una domanda seria né tanto meno un invito e Kay lo sapeva benissimo. Nella grande villa di St. Louis dove quel signore viveva c'erano molte stanze, ma nessuna di queste era per lei. Una verità sacrosanta, che però, come molte altre verità, non andava detta ad alta voce.
    -Verrò. -Era la sua battuta, in quel copione che avevano recitato migliaia di volte. Fortunatamente la battuta finale.
    -Bene, ti salutano tutti qua. Ciao, dolcezza.
    -Ciao, papà.
    Si alzò finalmente dal pavimento freddo e sorvolò il salotto con lo sguardo, finché non riuscì localizzare entrambe le sue sneackers di tela. Le raggiunse e acchiappò con velocità felina, quasi avesse paura che le sfuggissero.
    Quando finalmente l'ultima scarpa si decise a calzare il piede magro, si alzò in piedi, si mise a tracolla la borsa del lavoro e aprì la porta. Controllò che le Chesterfield fossero nella tasca posteriore dei suoi jeans chiari come sempre e uscì fuori, dove la strada immersa nella luce crepuscolare la inghiottì.

    Seduta sola a un tavolo vicino alla vetrata del Mcsorley's, la birreria preferita di chiunque vivesse nell'East Village, Kay leggeva un articolo dopo l'altro, alla ricerca di qualcosa di succoso da presentare al suo capo la mattina dopo.
    -Tieni, Stakanov. -O'Neal, il barista, scaraventò sul suo tavolo una birra scura. -Quando la smetterai di lavorare per quel cesso d'uomo?
    -Quando tu la smetterai di spacciarti per un irlandese.
    O'Neal gonfiò il petto, che fu comunque incapace di equiparare l'immensa pancia. -Io sono irlandese quanto questa birra!
    Kay lo fisso di sottecchi con i suoi immensi occhi azzurri, troppo grandi per il visino smunto. -Appunto.
    O'Neal fece finta di non sentire: era entrato un altro cliente e non si poteva far sorprendere in uno dei suoi classici battibecchi con Kay, che agli occhi di un estraneo sarebbe sembrata un magrissimo ragazzino di tredici anni.
    La ragazza volse di nuovo lo sguardo ai quotidiani di quel giorno e si passò una mano fra i capelli dritti come stecchi, un caschetto troppo corto per essere definito tale e troppo spettinato per essere definito e basta. Titoloni che annunciavano tracolli economici imminenti per le più disparate nazioni del mondo, omicidi efferati quanto singolari, scandali più veri sulla carta che nella realtà le sfilavano come scarne modelle davanti agli occhi. Non era quello che le serviva.
    Una penna rotolò giù dal tavolo e lei si allungò per recuperarla, senza raggiungerla. Maledendo per l'ennesima volta il dio che l'aveva progettata così bassa, si alzò e si chinò a recuperarla.
    -... una puzza avvilente, dice lui! Ci credo dico io! Ventitrè cadaveri! -O'Neal rise e il suo interlocutore lo seguì.
    Kay drizzò le orecchie. -Ventitrè morti? Dove?
    O'Neil si fece guardingo. -Vuoi un'altra birra?
    Non voleva un'altra birra. Voleva solo ficcare un po' il naso. Indicò il calice al suo tavolo, ancora pieno. -Dai, dimmelo. Tanto è una notizia già uscita.
    O'Neil sbuffò. -Non è roba per te... Una fuga di gas... Con tutti i morti ammazzati che ci sono in giro per questa città a chi vuoi che interessi? Un trafiletto in quarta pagina e una comparsata tra i titoli del telegiornale, fine. Gli incidenti non interessano a nessuno.
    -Se te lo chiedo significa che interessa a me, no? -lo rimbeccò lei, piantandosi le mani ossute sui fianchi.
    -Senti, è il condominio di mio fratello, non ci vogliono curiosi in giro... -Lo sguardò di Kay lo fece arrendere. -Vabbè, tanto è una cazzata. Ieri pomeriggio hanno trovato ventitrè morti in quest'appartamento a Staten Island... sentivano tutti un tale odore nel condominio... Alla fine il proprietario ha chiamato i poliziotti e boom, c'era tutta questa gente, stecchita... Ma niente di efferato, eh?
    -Dove di preciso?
    O'Neil prese uno straccio e le scoccò un'occhiata malevola. -Bridgetown street, al 22.
    Kay raggiunse veloce il tavolo dove erano sparse le sue cose e le infilò alla rinfusa nella borsa. Tirò tre sorsate di birra.
    -Ti devo un favore! -urlò all'irlandese uscendo.
    -E' una perdita di tempo. -replicò quello.
    Non era una necrofila Kay, né una turista del macabro, di quelle che vanno a ficcanasare nei luoghi dove altri hanno trovato la morte. Era una giornalista. Anzi una sotto-vice-pseudo-giornalista di una testata che pubblicava spazzatura, gossip e roba per curiosoni.
    Si infilò nella prima cabina telefonica che trovò, posta davanti all'entrata della metro. Compose il numero di Lindle in fretta e furia. -Capo! Ho qualcosa di nuovo!
    -Niente articoli riciclati da altre testate per domani, intendi? -Non era un tipo ambizioso, Lindle. Si accontentava del suo trafilettino in terza pagina e di avere un'assistente che facesse tutto per lui.
    -No, no... E' già uscita la notizia sui giornali. -Fece Kay un po' delusa. - Hai presente, il caso di quei ventitrè morti a Staten Island?
    -Si, una fuga di gas, roba banale.
    La ragazza si guardò la punta delle scarpe. -Ma non sono uscite foto del luogo?
    -No... -Lindle fece una pausa. -Effettivamente ricamandoci un po' su potremmo farci qualcosina di interessante con un bel po' di immagini, ma Fisher è in North Carolina...
    Lindle si occupava di cronaca nera, anzi, del lato sentimentale della cronaca nera. Adorava vedere il suo nome sotto articoletti strappalacrime sulle vittime di cruenti omicidi e adorava ancora di più farli scrivere a Kay, in modo da poter passare la giornata senza fare niente.
    -Ci penso io. Tanto la so usare la macchina, anche le foto del servizio dell'incidente sulla nona le ho fatte io. - O meglio Lindle, visto che si era preso anche il merito di quelle.
    -Si, ok.
    -Sono le quasi sette. -Sbirciò l'orologio, senza dargli tempo di aprire bocca. -Fra un quarto d'ora sono da te... Mi devi prestare l'auto e la macchina fotografica. Non posso andare a Staten Island con il treno, ci metterei una vita...
    -E come conti d'entrare? Chiedendo il permesso?
    -Beh, ma con qualcuno dovrò parlare, sennò su cosa ricamiamo poi? Sull'articolo del Times?
    Lindle sbuffò. Sicuramente lo affaticava anche l'idea di dover prendere l'ascensore del suo bel palazzo nell'Upper West Side. -Ok, ti aspetto.
    Kay ripose con poco garbo il telefono e si fiondò giù per le scale che portavano alla metropolitana.

    -Non sforzarla, non sbattere, vai piano. -Le ricordò Lindle, paziente. -E quando torni mandami una mail con le foto, così inizio a pensare a qualcosa.
    -Agli ordini, capo!-fece Kay dal posto del guidatore e, senza dargli il tempo di aggiungere altro, partì.
    Dopo cinque minuti, per distrarsi dal timore di trovare traffico, accese la radio, sintonizzata su un canale di musica country. Non lo cambiò. Non era una vera newyorkese, Kay, o meglio Katherine, come c'era scritto sulla sua carta d'identità. Anzi, a NY aveva passato appena 7 anni, college compreso, su venticinque di vita.Era una ragazza del Sud, nata e cresciuta vicino a Savannah, in Georgia. Non poteva non piacerle la musica country.
    Mentre Dolly Parton attaccava con Jolene, Kay ripercorse con gli occhi i luoghi felici della sua infanzia e per un attimo gli altissimi palazzi di New York si trasformarono in semplici case, i negozi aperti ventiquattrore su ventiquattro in botteghe dove si faceva credito, i barboni accasciati in terra in grossi cani che sonnecchiavano nella calura estiva. Le mancava vedere il cielo libero e sterminato: a New York sembrava prigioniero dei grattacieli.
    Non che la Grande Mela non le piacesse: fin dal liceo aveva smaniato per entrare alla Columbia University, dove sarebbe stata lontana chilometri e chilometri dal finto affetto del padre, dal sorriso di sufficienza della matrigna, dalla stupida collezione di bambole antiche di Betsy e dai pianti di un allora neonato Francis. Ma non era casa sua.
    Si dette una scossa e costrinse il suo cervello a seguire la strada mentre attraversava il Bayonne Bridge. Ci mancava solo che facesse un incidente con la macchina di Lindle.

    Davanti al palazzo c'era ancora un gran via vai di poliziotti e curiosi e Kay si rese conto con disappunto che il ritrovamento dei corpi era troppo recente perchè permettessero a un giornalista senza alcun aggancio di entrare dentro.
    Doveva farlo di nascosto. Se l'avessero beccata sarebbe stata nei guai fino al collo, ma del resto faceva parte del suo lavoro. Esattamente come per un criminale, di tanto in tanto la polizia diventava un nemico anche per un giornalista da battaglia, di quelli che stanno sul posto.
    Fece un rapido giro intorno al palazzo, alla ricerca di una scala di emergenza, senza trovarne nemmeno una. Allora si decise a rischiare la sorte.
    Sfondò il piccolo gruppo di curiosi con aria infastidita e scoccò un'occhiata malevola ai poliziotti. Il portone del palazzo era socchiuso: tirò fuori le sue chiavi di casa giusto per darsi un'aria convincente.
    -Ragazzina, dove stai andando?
    Kay tirò fuori la sua facciatosta. -A casa mia.
    Al contrario di quanto faceva di solito, non disse piccata al poliziotto che non era una ragazzina, ma una donna di venticinque anni: aveva meno possibilità che le chiedesse i documenti. A volte la sua bassa statura e la sua esile corporatura, elementi che insieme la rendevano un grazioso mucchietto d'ossa di un metro e cinquantasette, avevano il loro lato positivo.
    -Abiti qui? Quale appartamento? -Il poliziotto sembrava indeciso. -Sembrava che fossero già rientrati tutti...
    -Sarà rientrata mia madre. -Kay decise di improvvisare. -Sa una donna bassa...
    -Aspetta un attimo qua. Non ti muovere.
    Il corpulento agente andò da una donna con i capelli cortissimi e l'aria stanca. Dopo che ebbero confabulato un attimo, questa posò il suo sguardo su Kay, che tirò fuori la sua aria più imbronciata ed innocente.
    L'agente ritornò. -Ti accompagno su.
    Merda! -Grazie.
    Iniziarono a salire. Quando si ritrovarono davanti al 27b, il luogo del delitto, Kay lanciò un'occhiata alla porta. Era ricoperta di nastri gialli, di quelli che la polizia federale usa per sigillare i luoghi d'interesse. Entrare da lì era impossibile, avrebbe dovuto togliere tutto e scassinare la porta. Proseguì.
    Ad ogni rampa di scale l'agente si faceva più lento e Kay sentiva dietro le sue spalle il rumore dei suoi respiri affaticati. Fece un leggero scatto verso una porta all'ultimo piano.
    -Questa è casa mia. -Disse, atona. Infilò le sue chiavi nella serratura del 45a con delicatezza, in modo che non facessero rumore, e pregò che il proprietario di quell'appartamento non uscisse. Si decise a sorridere e a fare un gesto di saluto con la piccola mano.
    L'agente rimase a metà rampa un attimo. -Ok, buona serata e scusami per il disturbo!
    Si girò e se ne andò.
    Kay sfilò piano le sue chiavi, capaci di aprire solo il suo appartamento dell'East Village, e sospirò, sollevata.
    La sensazione di averla fatta franca durò poco, perchè la porta del 45a si aprì.
    Era fregata.

    Edited by Charlotte Sometimes - 30/6/2010, 18:05
     
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  8. ~ Venere.
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    - Ehi ragazzina, cosa ci fai davanti la mia porta? -
    Capelli corti e lisci color ciliegia e labbra rosso infuocato, Scarlett Selvaggio stava per uscire dall’appartamento 45a di quel “maledetto palazzo”, così lo chiamava lei. La trattenne all’uscio la figura magra e minuta della ragazza che la fronteggiava. Aveva l’aspetto di una bambina, un volto fresco e grazioso, capelli castano scuro, occhi grandi e azzurri e labbra carnose.
    - Stavo… -, Scarlett pensò che non le interessava nemmeno quello che la ragazza le stava per rispondere, inoltre aveva fretta di uscire da lì: quel posto lo odiava profondamente, oltre al fatto che aveva un appuntamento importante all’Empire State Building a meno di un’ora. – Non m’interessa, vattene. – Vide la ragazza correre giù per le scale con una certa fretta.
    L’appuntamento con Glenn era fissato per le 21.15. Nonostante la donna esattamente un’ora prima si trovasse nel palazzo tanto disprezzato da Scarlett, questa le aveva dato appuntamento all’Empire per evitare giornalisti ficcanaso e confusione. Scarlett sapeva che Glenn era una donna puntuale, a differenza sua, per cui stavolta si fece trovare all’Empire State Building dieci minuti prima dell’orario prefissato. Non sapeva neanche lei come era riuscita ad arrivare in anticipo nonostante lo stormo di poliziotti che circondavano il palazzo dove aveva più o meno trascorso la sua infanzia. “Quel molteplice omicidio non ci voleva proprio” pensò innervosita mentre avanzava verso Glenn, che l’aspettava davanti l’ingresso dell’imponente grattacielo.
    - Sì lo penso anche io. – disse Glenn senza neanche salutarla, - 23 corpi sono troppi anche per me, questa non ci voleva proprio -. Erano amiche da una ventina d’anni ormai, e Glenn aveva imparato a interpretare i pensieri della splendida Scarlett attraverso le espressioni del volto.
    - Novità? Perché mi hai voluta incontrare? E’ una vita che non ci si vede, tu pensi sempre al lavoro e… -
    - 23 morti proprio al 27b del palazzo in cui abiti non ti fanno onore, Scarlett. Tutti uomini per giunta, che coincidenza eh? – disse interrompendo l’amica.
    - Sai che non ci abito, mi è stato lasciato in eredità ma preferisco l’Hilton Garden. Non starò qui a convincerti del contrario se è quello che pensi, nella mia vita ne ho fatti di sbagli e mi sono guadagnata anche 3 anni di carcere, ma mai arriverei a tale scempio. – rispose prontamente Scarlett, un po’ infastidita. In fondo credeva che Glenn avesse capito dopo tutti questi anni com’era veramente la sua amica (o forse doveva dire ex?), invece la stava addirittura sospettando di un presunto pluriomicidio.
    - In teoria sarebbero dovuti essere dieci anni. Comunque non dovrei ma te lo dico ugualmente: facendo delle ricerche accurate ho scoperto che guarda caso tutte queste persone morte in un modo o nell’altro sono collegate al tuo nome. Li conoscevi tutti, Scarlett? – chiese con tono pacato Glenn, accendendosi la sua nona sigaretta del giorno.
    - Anche se fosse? Quale sarebbe il movente che porterebbe ad accusare me? – chiese in tono sicuro di chi sa il fatto suo.
    - Il tuo disprezzo per gli uomini è alto Scarlett, conoscendoti credo che questo basti e avanzi come motivazione…- Glenn assunse un’aria pensosa, probabilmente si stava ricordando a malincuore di quando Scarlett le disse chiaramente cosa pensava di Maurice, vale a dire un “insulso buono a nulla capace solo di scopare”. Non sapeva leggere lo sguardo di Glenn ma capiva perfettamente quando lei pensava a Maurice, l’espressione rabbuiata era sempre la medesima ogni volta. “Te l’avevo detto amica mia…” pensò facendosi un po’ triste Scarlett.
    Poi si mise sulla difensiva:
    - Beh basterebbe per te, non di certo per l’FBI o la polizia locale. Non odio gli uomini tanto da ucciderli, sono liberi di vivere, e non li disprezzo tutti, sono selettiva io. – Glenn aspettava una risposta alla sua domanda, Scarlett aspettò qualche secondo prima di proseguire.
    - Sì, in linea di massima li conoscevo tutti, chi più e chi meno. C’era Sheldon, il tipo grassoccio sulla trentina che lavorava dal meccanico e mi riparava l’auto gratis, sperando in una improbabile notte di sesso. Mike non lo conoscevo di persona, era lo zio di un’amica che veniva al college con me. Poi Jacob, oh lui non lo sopportavo, abitava di fianco al mio appartamento e non faceva altro dalla mattina alla sera se non guardare la tv e le sue inutili partite di football ad alto volume e bestemmiare. Una vita alquanto triste, mi dava noia… - Il sorrisetto malizioso che comparve istintivamente sull’angolo della bocca rosso fuoco la tradì per un secondo, rivolse lo sguardo a Glenn come volesse leggere nei suoi pensieri, invidiava la capacità di Glenn di riuscire a leggerla come un libro aperto.
    - Parliamo dell’italiano Cristian, non è una strana coincidenza che un uomo che frequentava le scuole elementari con te si ritrovi stecchito nel 27b del tuo palazzo? –
    - Pura coincidenza, il fatto che facevo avanti e indietro Italia / New York per via della separazione dei miei genitori non fa di me un’assassina. Andiamo Glenn, dovresti conoscermi per dio! – Glenn le lanciò uno sguardo di sfiducia.
    - Vuoi che ti ricordi come hai ridotto il proprietario della palestra che frequentavamo quando avevamo 19 anni, perché era misogino e tu non lo sopportavi? – disse con fare malizioso Glenn
    - Beh sfido io a fare esercizi con gli attrezzi e sentirsi dire da un palestrato senza cervello “Tanto sei una donna, cosa vuoi massificare”, e tanto altro che non ti sto a dire. Se lo meritava. – disse con aria soddisfatta Scarlett.
    - Già, distruggergli la famiglia inventandoti una relazione tra te e lui inesistente fa di te una vera giustiziera. – Glenn gettò a terra il mozzicone di sigaretta ancora acceso e lo schiacciò con il piede, poi rivolse lo sguardo verso la sua amica il quale però non era ricambiato. Scarlett continuò:
    - Se non altro ho salvato la moglie da un maschilista senza scrupoli, adesso la poverina starà sicuramente da dio; dovrebbe ringraziarmi… Hai finito con il tuo interrogatorio? – le chiese dando un’occhiata veloce all’orologio sul polso sinistro.
    - Credo di sì. – Glenn si avviò verso la sua BMW 320
    - Ok allora finalmente posso andare al mio hotel e farmi fare un massaggio rilassante… - Scarlett assunse uno sguardo dagli occhi sognanti mentre seguiva l’amica che avanzava verso l’automobile.
    - Devi rimandarlo – disse con fermezza Glenn.
    - Perché? – Scarlett si fece scettica.
    - Sei sotto la mia stretta sorveglianza, e stavolta niente favoritismi. -
     
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  9. Slevin
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    8/04/1994

    Poff-poff. Seduto al pianoforte, bestemmiò tra i denti massaggiandosi il braccio destro. Il suono che usciva dallo scassatissimo mezzacoda era sbiadito, fiacco, ben distante dagli accordi brillanti che risuonavano nel piccolo studio fino a quattro mesi prima, quando s'era lacerato un tendine della mano destra. Quattro mesi di fasciatura gli erano costati un notevole calo di tecnica. Aveva già perso il suo debutto alla Carnegie Hall. La Carnegie Hall, cazzo. Era arrivato ad un passo dal successo, ed era rimasto con un pugno di mosche in mano. Una fortuna avere dei genitori da qualche parte, che gli giravano un piccolo assegno mensile. Si grattò il capo, passandosi le mani in quel casino che erano i suoi capelli. Gli era passata di nuovo la voglia di studiare. S'alzò, spingendo indietro lo sgabello e stiracchiandosi. Si mosse alla finestra. Cristo, stavolta lo stava davvero prendendo in culo. Dopo una vita di studio, studio, studio si ritrovava a ventidue anni solo come un cane, senza lavoro stabile, povero in canna. Rise tra sé, di sé. Ogni volta che si sentiva demoralizzato, l'autoironia era il pungolo perfetto per riprendersi.

    Uscì a farsi un giro. Quando passeggiava col suo bel completo scuro si sentiva un vero artista intellettuale. Pensò che forse sembrava pure un po' frocio, e rise ancora di se stesso. Non che glie ne fregasse qualcosa. Si fermò al baracchino arrugginito, l'edicola più vicina a casa, lungo la strada affiancata dagli alberi. Comprò un giornale. Un secondo, com'era l'edicolante? Aveva appena pagato e già si era dimenticato la sua faccia. Normale. Il suo involontario disprezzo per il volgo. Non lo faceva per cattiveria, ma gli anni alla Julliard gli avevano inculcato come un certo elitarismo che lo portava a vedere le classi medio-basse come un branco di bovini, doppioni della stessa bestia con indosso le loro maschere di mediocrità. Dall'altra parte della barricata stavano gli uomini di cultura, la creme della creme, l'apice dell'evoluzione intellettuale umana.
    Tornò a concentrarsi sul giornale. L'occhio cadde su un articolo, sull'articolo. Qualcosa gli tornava familiare. Non che gli importasse di ventitré plebei privi di un volto ancora prima di poterlo perdere, però i nomi nell'articolo gli facevano suonare qualche un qualche campanello in testa. Bridgetown, D.Green, Bridgetown... Bridgetown... qualche anno prima ci aveva ascoltato un Beethoven alla buona dal suo compagno della Julliard, quel tale Matsuda, l'unico musicista giapponese del pianeta che di studiare non voleva saperne. Oddio. Camminò svelto. Può essere che il suo padrone di casa si chiamasse Green? Non lo avrebbe giurato, ma in ogni caso quel nome gli suonava familiare.
     
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